Informazioni di carattere generale riguardanti lo stalking sono presenti in numero sempre maggiore, soprattutto da quando, nel 2009, la legge n.38 introduce questo tipo di reato nei “delitti contro la liberta’ individuale e morale”.
Da allora e in seguito ai numerosi episodi di violenza di genere, per i quali il discutibile termine femminicidio è stato coniato, e che hanno tristemente caratterizzato la cronaca nera degli ultimi anni, l’attenzione dei media si è concentrata sul fenomeno stalking, sia in ottica di prevenzione e tutela della vittima, sia in senso informativo e divulgativo.
In questo articolo suddiviso in tre parti cercheremo di far luce sulla natura del fenomeno ponendo alcune riflessioni di carattere psicologico, oltre che sulla vittima e sullo stalker, sul rapporto tra i due precedente la denuncia.
Il fatto che non sempre un quadro psicopatologico interessa lo stalker, la relativa ” attualita” del fenomeno che viene indagato “soltanto” da circa un ventennio e la particolare modalità di classificazione del soggetto, che viene identificato solo al momento del comportamento delittuoso, rendono improbabile una precisa classificazione diagnostica. Non ci sono in definitiva dei criteri diagnostici per stabilire un profilo psicologico tipico dello stalker.
La maggiore conseguenza di questa mancanza sta nel fatto che possiamo ad oggi avanzare sotanto ipotesi su cosa spinga il molestatore ad attuare comportamenti indesiderati e continuativi contro una vittima con la quale, molto spesso, aveva intrattenuto una relazione sentimentale, anche sfociata nel matrimonio e nella costruzione di una famiglia.
Il termine stalking, come abbiamo imparato, deriva da un’espressione anglosassone traducibile con “appostarsi”, e che fa riferimento al mondo della caccia.
In effetti, se guardiamo i tipici comportamenti dello stalker, le analogie con l’azione predatoria di un cacciatore sono facilmente individuabili.
Inseguimenti, frequenti telefonate e biglietti, il ricorso ad investigatori privati, molestie improvvise, SMS ad ogni ora del giorno e della notte, fanno si che la vittima si senta ” braccata” in un territorio che diventa sempre più minaccioso e dal quale le risulta impossibile fuggire.
I disturbi d’ansia che si ripercuotono sul sonno, scombussolano abitudini alimentari, rendono difficoltoso lo svolgimento delle attività lavorative, ci dicono molto sulla tenacia con la quale lo stalker mette in atto la sua strategia di conquista ( o ri-conquista) di una preda che percepisce come sua per diritto inviolabile.
Una delle ipotesi che riteniamo interessante e’ quella di Massimo Lattanzi, che descrive nel suo libro intitolato ” Rifiuto Tossico”.
Secondo l’autore ciò che accomunerebbe gli stalker sarebbe una mancanza affettiva profonda da ricercare nel periodo dell infanzia. Avendo sperimentato, realmente o solo mentalmente, un rifiuto o un abbandono da parte di genitori o caregiver, il bambino costruisce intorno all’idea di un abbandono una profonda paura che può portare a comportamenti assillanti atti a ripristinare la relazione nel momento in cui, ormai adulto, percepisce anche solo il sentore di un prossimo abbandono da parte del partner.
Ci sarebbe dunque una ferita narcisitica alla base dello stalking, anche se tratti narcisistici di personalità non sembrerebbero correlati alla messa in atto del comportamento vessatorio.
Secondo il prof. Massimo Robboni, psichiatra e direttore del dipartimento di Salute Mentale dell Ospedale di Bergamo, sarebbero infatti soggetti con tratti paranoici i più interessati dal fenomeno, quelli nei quali la rabbia connessa alla ferita narcisistica si proietta all’esterno e per i quali il mondo diventa un covo di nemici pronti ad assalirlo ed ostacolarlo. Negli individui con tratti narcisisti, spiega in un’intervista per il Corriere della Sera, l’altro viene percepito soltanto come mezzo per amplificare ed acclamare la propria superiorità ‘ su un mondo che percepisce soltanto come eco della propria voce, l’unica davvero importante. In tal senso spesso una relazione perde di valore non appena viene intrapresa, e il problema di ripristinarla una volta che viene messa in crisi non si pone affatto. La persona che lascia il narcisista “scompare” dallo scenario della vita psichica dello stesso.
Ricapitolando, una ferita profonda subita durante l’infanzia porterebbe la persona a vedere il mondo come un luogo in cui gli altri sono pericolosamente intenti ad ostacolarla, da qui la fondamentale importanza di evitare un abbandono e di fare in modo che la relazione con l’oggetto d’amore non finisca, ma continui a tutti i costi.
Fine prima parte
Dott.ssa Roberta Del Frate