Il rapporto tra essere umano e cibo è argomento sul quale moltissimo e’ stato detto, ricercato, ipotizzato, pubblicato, confutato, scritto. Il cibo è questione infatti medica, psicologica, antropologica, sociale, economica, politica e filosofica, e l’aspetto più affascinante di questa relazione così antica sta proprio nella sua evoluzione che si manifesta, oggi, in una vasta gamma di comportamenti e vissuti legati al cibo. Restringere il campo di riflessione sul cibo, in psicologia, vuol dire non soltanto trattare le sfumature psicopatologiche, ma anche guardare alle nuove tendenze con occhio acritico, cercando di tracciare una linea sottile che divida i disturbi alimentari da alcune scelte radicali che caratterizzano i contorni della tavola italiana del 2015. Un obbiettivo arduo, senza ombra di dubbio, ma che se perseguito potrebbe aiutare non poco a individuare e neutralizzare pregiudizi, diatribe, fanatismi e strumentalizzazioni che vediamo subdolamente insinuarsi
tra i promotori dei diversi stili alimentari e i professionisti della mente, spesso accusati di stigmatizzare scelte alimentari drastiche, ponendole all’ombra del grande cappello dei disturbi alimentari. Cerchiamo di fare chiarezza. Un disturbo alimentare viene definito sulla base di alcuni criteri universalmente riconosciuti e pubblicati nel testo di riferimento, pubblicato in USA, chiamato DSM, in italiano, Manuale Statistico Diagnostico dei
Disturbi Mentali, arrivato alla quinta edizione. La definizione generale che abbiamo di disurbo alimentare è la seguente: “ un persistente disturbo dell’alimentazione oppure da comportamenti inerenti l’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo e che compromettono significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosocialeâ€.
Due sono quindi i criteri per stabilire se siamo di fronte a un comportamento causato da un disturbo alimentare: un alterato consumo del cibo e la compromissione della salute fisica o della vita sociale dell’individuo. Queste definizioni presentano aree tuttavia opinabili, ed è proprio qui che sembrerebbero nascere le opposte fazioni: cosa intendiamo per alterato consumo di cibo? In che misura un’alterazione della salute fisica può derivare, ad esempio, dal rifiuto di consumare proteine animali? La compromissione della vita relazionale dipende dal disturbo o dalla scarsa accettazione della società verso nuove scelte alimentari? Fino a che punto si tratta di evoluzione del rapporto col cibo e fino a che punto siamo di fronte alla diffusione, ai limiti della pandemia, di una psicopatologia da curare e correggere? Ci occuperemo di entrambe le dimensioni trattando, da un lato, il veg ( vegetariano + vegano ) come scelta etica, dall’altro l’ortoressia, un disturbo alimentare recentemente menzionato nel DSM-5, che a differenza
delle più sensibilizzate anoressia nervosa e bulimia ha la caratteristica di interessare una drastica restrizione dei cibi in seno alla loro qualità , più che alla quantità . Parliamo della scelta veg in senso lato, includendo sia i vegetariani sia i vegani. I primi ammettono il consumo di uova e latte, i secondi rappresentano una frangia più estrema ed hanno adottato uno stile alimentare
che toglie dall’alimentazione la carne, il pesce, le uova, il latte e suoi derivati, il miele. Una persona vegan non mangia tutto ciò che ha occhi per vedere, per dirla in modo semplice, tutto ciò che è vivo rappresenta
qualcosa da amare ai limiti del sacro. Dato che non siamo propensi alle generalizzazioni, per distinzione riportiamo alcuni dati statistici sulle motivazioni della scelta veg nel mondo. Secondo Meat Atlas ( Atlante della Carne), un manifesto di denuncia verso le metodologie delle industrie della carne, si definisce vegetariano il 4% degli uomini e il 7% delle donne nel mondo. In Europa la stima è del 10% della popolazione. Le motivazioni sono, oltre a ragioni di fede che interessano l’India, dove è vegetariana il 31% della popolazione, empatia verso gli animali, ragioni di salute, rispetto dell’ambiente. In Italia sono circa 3 milioni e mezzo le persone che hanno scelto di estromettere la carne e il pesce dalla loro dieta, un numero che è significativamente cresciuto negli ultimi tre anni. La quota vegan di questo gruppo è dello 0,2%, in netta diminuzione rispetto all’1,1% del 2013 e allo 0,6% dello scorso anno. Questo dato potrebbe essere letto nel senso di una forte difficoltà a mantenere nel tempo questo tipo di scelta, viste le restrizioni che prevede. Importante un’ulteriore specificazione sul vegan: si tratta di uno stile di vita all’interno del quale la scelta alimentare rappresenta solo una parte. Stando alla definizione di disturbo alimentare che abbiamo prima esposto, nel veg è presente il criterio “alterato consumo o assorbimento del cibo†: togliere dalla dieta la carne e il pesce rappresenta un drastico taglio alla scelta dei cibi a favore di alimenti di diversa qualità ( legumi, seitan, tofu, etc). Il secondo criterio riguarda le conseguenze fisiche e relazionali di una simile scelta. Dal punto di vista prettamente medico, diverse sono le posizioni espresse da dietisti, nutrizionisti, oncologi, sull’effettiva perdita o guadagno in ambito salutare. In particolare, i vegetaristi affermano che una dieta troppo ricca di grassi e proteine animali farebbe male all’organismo, che finirebbe per assorbire tutte le sostanze nocive di cui l’animale e’ portatore, a partire dai prodotti chimici utilizzati in agricoltura fino a medicinali e antibiotici che verrebbero somministrati all’animale secondo alcuni metodi di allevamento. Uno dei cardini sul quale si fonda infatti la scelta veg, è infatti proprio un vantaggio in termini di salute generale. Esporremo dei pareri a favore e contro questo tipo di convinzione, tentando di apporre risultati clinici. Conclusioni a favore di un guadagno in termini di salute generale provengono dal cosiddetto “progetto Cinaâ€: uno studio che ha preso in esame, prima nel 1983 poi nel 1989 , più di 13.000 tipi di dati relativi allo
stile di vita e alle cause di morte in un campione vastissimo della popolazione cinese. Tra le varie conclusioni, i ricercatori affermarono che l’assunzione, anche in moderate quantità , di cibi di origine animale aumentavano significativamente le probabilità di insorgenza di malattie coronariche, per contro, una maggiore percentuale di assunzione di cibi di origine vegetale riduceva significativamente tale rischio. Più recentemente, nel 1999, uno studio condotto ad Oxford su 65.500 soggetti ha dimostrato come nei vegetariani e nei vegani il rischio di cardiopatie e di tumori ormono-sensibili come quello della mammella e della prostata sia significativamente minore rispetto alla popolazione onnivora 1. Per contro, uno studio effettuato dai ricercatori dell’Università di Graz, risalente al periodo 2006/2007 su un campione di 15474 individui maschi e femmine e pubblicato sulla rivista Plos.one, arriva a conclusioni
totalmente diverse. Secondo questo studio, la popolazione vegetariana, pur presentando statisticamente un Indice di Massa Corporea inferiore a quello della popolazione onnivora, presenterebbe maggiore rischio di
patologie croniche che portano dal medico tra le quali la depressione. Pur essendo stato soggetto a critiche metodologiche, lo studio ha sollevato una serie di interrogativi circa il vantaggio salutare della dieta vegetariana. Come quello condotto dal Dott. Hermann nel Dpartimento di
Scienze della Nutrizione dell’Università dell’Est Carolina, il quale dimostra che esiste una correlazione significativa tra carenza di vitamina B12 e dieta vegetariana e vegana. Opinabile, dunque, anche la visione di quanti scelgono il veg spinti da una motivazione salutista. Ma è il campo delle relazioni quello che ci interessa maggiormente in questa sede. Vorremmo riflettere assieme al lettore sulla sottile distinzione che esiste tra disturbi mentali e scelte radicali in ambito alimentare. Sul versante psicologico infatti, pur nella varietà , sembrerebbe comune un sentimento di inadeguatezza che viene avvertito sia da chi decide di eliminare cibi animali sia da chi resta onnivoro e si trova a confrontarsi con persone vegetariane. Siamo alla presenza di opposte fazioni che vedono schierati, da un lato, i vegetariani convinti che si sentono attaccati dagli onnivori che li ridicolizzano e gli onnivori che non accettano il senso di colpa che un veg tenterebbe, ai loro occhi, di instillare davanti ad una bistecca. Potrebbero essere questi dunque i termini del conflitto e di quei disagi relazionali che il Dsm-5 cita tra i criteri fondamentali per diagnosticare un disturbo alimentare? Nella seconda parte entreremo nel vivo della riflessione e parleremo dell’ortoressia: un disturbo mentale di recente classificazione che presenta caratteristiche sovrapponibili alla scelta veg, e che pare stare al centro
di una polemica tra chi considera la popolazione veg ad alto rischio patologico e chi, invece, rifiuta tale stigmatizzazione adducendo ragioni etiche che scagionano la scelta alimentare dai criteri diagnostici.
Fine Prima Parte.
Dott.ssa Roberta Del Frate